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I femminili professionali: se va bene infermiera, via libera a ingegnera e ministra. Comincia dalla scuola il cambio culturale.

Il sessismo si nasconde tra le parole: i professori della Crusca e i più grandi linguisti ci spronano a usare il femminile, soprattutto per quelle professioni che un tempo non erano permesse, oppure lasciavano pochi spazi alle donne.

Capita ancora di essere corretti se chiamiamo una donna avvocata: “Preferisco avvocato, grazie”. 

Il maschilismo si annida inconsapevolmente in alcune donne, che ritengono una declinazione maschile più autorevole. Eppure, esiste persino una nota preghiera (“Salve Regina”) che recita così: “Orsù dunque, avvocata nostra […]”, rivolgendosi alla Madonna. La professione declinata al maschile fa ancora sentire qualche donna più rispettata. Il problema non è grammaticale, bensì di carattere sociologico. Prendiamo in considerazione il termine marinaio: sappiamo che il femminile grammaticalmente corretto è marinaia, come ci spiegano autorevoli linguisti: allora perché in tanti continuano a dare del “marinaio” a una donna (spesso se la cavano con “donna marinaio”). Semplice: si tratta di una scelta senza basi linguistiche, ma con forti resistenze sociologiche. 

Il perché si può intuire con un ragionamento logico: fino a pochi anni fa era una cosa strana vedere persino una donna alla guida di un bus pubblico (i giornalisti, nei primi anni del 2000, facevano servizi in cui intervistavano le donne al volante) figuriamoci una donna imbarcata in missione per 6 mesi. 

La prima donna palombaro della Marina Militare a indossare l’ambito basco del GOS è Chiara Giamundo: ha raggiunto la meta di recente.

Il 20 ottobre del 1999, con la legge numero 380, l’Italia si è allineata ai paesi della NATO aprendo le Forze armate al reclutamento femminile. Insomma, è difficile declinare una professione al femminile se si è trattato sempre di un lavoro riservato agli uomini, oppure se si è sempre trattato di professioni dove per anni le donne sono state solo un’eccezione. 

Ma l’italiano è una lingua viva, che si sa adattare ai cambiamenti senza rinnegare le sue radici latine: si evolve come i lavori e la società. Del resto la lingua è una convenzione: possiamo decidere di essere meno sessisti e meno discriminatori. 

Abbiamo la benedizione di grandi studiosi come la professoressa Valeria Della Valle, dell’Accademia della Crusca, che ci prega di utilizzare il termine “avvocata” anziché il maschile “avvocato”, perché è più corretto di avvocatessa (professoressa e vigilessa sono termini che si sono imposti grazie a un uso comune prolungato). 

 

I femminili professionali sono un tema importante che chi ha fatto le scuole in tempi remoti (quando si prendevano a bacchettate sulle dita gli studenti) spesso fatica ad accettare.

 L’Accademia della Crusca, la fonte più autorevole sul corretto uso della lingua italiana, ci spiega che è grammaticalmente corretto utilizzare i termini ministra, ingegnera, sindaca e tanto altro. Sappiamo che ci sono delle professioni declinate solo al femminile, come pediatra e astronauta, per ragioni etimologiche, ma basta cambiare l’articolo per ottenere la specificazione maschile o femminile: il pediatra o la pediatra.

 Dunque, smettiamola di chiamare le donne con l’articolo sbagliato se hanno un ruolo di presidenza: bisogna dire “la presidente”, non “il presidente”! 

Quest’ultimo è uno sbaglio che fanno molti burocrati e che ha fatto anche un uomo colto come il premier Draghi. Quindi, non esiste alcun motivo linguistico, come potete verificare su tutti i più autorevoli vocabolari, per cui rifiutare di utilizzare i termini ministra, avvocata o ingegnera. 

Per anni la flessione nominale è stata androcentrica, perché è stato l’uomo a stabilirlo. Voglio citare un pezzo della linguista Cecilia Robustelli, che è stato scritto per Treccani.it è che si può reperire facilmente sul web: «Si noti che negli ultimi decenni, in seguito al crescente ingresso delle donne in settori del mondo del lavoro, delle professioni e delle istituzioni tradizionalmente riservato agli uomini, sono entrate nell’uso molte forme femminili che in precedenza erano usate solo al maschile: si tratta soprattutto di termini che indicano ruoli professionali o istituzionali di prestigio, come ministra, sindaca, chirurga, architetta, ingegnera, ecc. Si tratta di forme corrette sul piano grammaticale e perfettamente riconducibili alle regole di formazione delle parole. L’ancora diffusa reticenza nei confronti del loro uso non ha quindi alcuna ragion d’essere dal punto di vista grammaticale o più ampiamente linguistico. Essa dipende invece da scelte personali che risultano in una contravvenzione alle regole della lingua italiana e che rischiano di creare ambiguità e oscurità sul piano comunicativo, incluso quello della comunicazione istituzionale».

Gaetano Gorgoni

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