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Gli studenti della classe 4N indirizzo servizi commerciali hanno incontrato la dott.ssa Giulia De Duro, Comunità Casa Samaria, equipe giustizia della Caritas Diocesana di Bergamo per conoscere l’esperienza del carcere di Bergamo e approfondire le misure alternative alla detenzione.

Casa Samaria è una comunità di accoglienza femminile nata dalla collaborazione tra Caritas Bergamasca e l’Istituto Palazzolo delle Suore Poverelle con l’obiettivo di offrire alle donne detenute in carcere, coloro le quali possono accedere ai benefici previsti dalla legge, la possibilità di usufruire delle misure alternative alla detenzione in un ambiente il più possibile familiare ed educativo.

Casa Samaria inoltre offre ai detenuti un sostegno stabile fuori e dentro l’Istituto penitenziario di Bergamo.

Perché hai scelto questo lavoro? Quali percorsi di studio hai seguito?

Ho scelto questo lavoro di seguito ad alcune esperienze molto forti che ho vissuto nei contesti di reclusione. Mi sono avvicinata al mondo del carcere grazie ad un professore universitario che ha permesso a me e ad altri ragazzi di gestire dei gruppi di discussione all’interno della sezione penale e femminile della Casa Circondariale di Bergamo. Di seguito a questi momenti, dopo non poche riflessioni sull’ambito del penale adulto, ho avuto la fortuna di intraprendere altri percorsi sempre legati all’ambito giustizia che mi hanno fatto capire che avrei voluto lavorare su questi temi e con persone che stanno vivendo una vita di sofferenze di seguito ad un reato e al percorso detentivo. Dopo le superiori mi sono iscritta a scienze dell’educazione e poi ho fatto la magistrale in scienze pedagogiche. L’ultimo tirocinio l’ho svolto presso la caritas diocesana bergamasca dove oggi lavoro. 

Qual è l’esperienza più significativa a livello emotivo vissuta fino ad oggi?

Una delle esperienze più forti che ho vissuto è quando un pomeriggio di marzo 2019, mentre insieme ad alcune mie compagne dell’università ero nella sezione femminile di Bergamo, gli agenti di polizia penitenziaria hanno chiamato “liberante” una ragazza che partecipava ai nostri gruppi. Liberante significa che da quel momento sei obbligata ad uscire dal carcere nel minor tempo possibile. Per me questo è stato un momento significativo soprattutto perché ho potuto toccare con mano le emozioni della sezione: dalla gioia di chi finalmente, dopo diversi anni di reclusione, poteva riabbracciare i suoi familiari, alla rabbia di chi ancora doveva rimanere tra quelle sbarre, l’invidia di chi avrebbe preferito essere al posto di quella persona, la gratitudine della ragazza nei nostri confronti, in quelli delle altre donne detenute e in quelli degli agenti di polizia penitenziaria e della struttura carceraria che nonostante la sofferenza sicuramente l’hanno aiutata a fermarsi un attimo e a riprendere in mano al sua vita. 

Mi ricordo che il nostro incontro della giornata era stato interrotto da questo evento perché quando qualcuna viene rilasciata tutta la sezione si ferma…tra pianti, urla e borse che si devono preparare al volo, quel giorno era davvero un casino così ci hanno fatto uscire prima. 

Io e il mio gruppo ci siamo fermati fuori dal cancello del carcere a riflettere su quello che avevamo vissuto e mentre eravamo ancora lì la ragazza è uscita. Mi ricordo che era buio, faceva freddo e lei non aveva il cellulare con cui contattare la sua famiglia per far si che la venissero a prendere, le abbiamo prestato il nostro e ce ne siamo andati per lasciarle un momento di intimità insieme al padre che l’avrebbe vista dopo diversi anni. 

Oggi questa ragazza è stata assunta in un bar vicino a dove lavoro e ogni volta che mi capita di incontrarla mi ritorna alla mente questo episodio. 

Con quali criteri si sceglie chi può intraprendere percorsi alternativi al carcere? 

Esistono dei criteri dettati dalla legge per poter accedere alle misure alternative: sicuramente una buona condotta, avere una pena inferiore ai 4 anni e avere una casa idonea in cui poter finire di scontare la propria pena. Esistono inoltre dei “criteri” che non sono giuridici ma che dipendono dalla volontà della persona interessata. Uomini e donne che vogliono accedere alle misure alternative devono avere voglia di rimboccarsi le maniche e di provare a rimettersi in piedi, seppur con diverse difficoltà. Accedere alle misure alternative significa intraprendere un percorso di autonomia sia dal punto di vista lavorativo, scolastico o abitativo e non sempre le persone in carcere hanno voglia di mettersi in gioco su questi aspetti.  

Una cosa da sapere è che non tutte le persone che hanno diritto ad accedere alle misure alternative, purtroppo, hanno una casa in cui stare. Proprio per questo motivo esistono degli enti come la Caritas Diocesana di Bergamo, che mettono a disposizione delle strutture per accogliere persone in misura alternativa al carcere. Io personalmente lavoro nella comunità “Casa Samaria” nata nel 2005 in collaborazione tra la Caritas e l’Istituto delle suore delle poverelle che accoglie esclusivamente donne in misura alternativa. Ogni struttura ha dei criteri e un regolamento specifico sul tipo di persone da accogliere. Nel nostro caso le donne che arrivano non devono avere né problemi psichiatrici né problemi di dipendenza in quanto siamo una comunità educativa e non terapeutica quindi non ci occupiamo di tutto l’aspetto sanitario di cui invece queste persone hanno bisogno.

Mattia Cappuccio, Edoardo Crippa, Gabriele Frullone e Lixi Davide

Rappresentazione della giustizia riparativa creata dagli studenti di 4N
Rappresentazione della giustizia riparativa creata dagli studenti di 4N

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